Libia, la nuova «causa sacrosanta» di Gentiloni
L’Italia sta attrezzandosi per fronteggiare la guerra che le si presenta alle porte?»: Gad Lerner è andato a chiederlo al nuovo ministro degli esteri, Paolo Gentiloni, «formatosi nella cultura del pacifismo e del disarmo, oggi rimessa drammaticamente in discussione dall’incendio che divampa lungo tutta la sponda sud del nostro mare, a cominciare dalla vicinissima Libia». Nell’intervista (La Repubblica, 26 novembre), che il ministero degli esteri riporta nel suo sito dandole carattere ufficiale, Gentiloni ribadisce che, di fronte all’attuale crisi libica, «certo non rimpiangiamo la caduta di Gheddafi: abbatterlo era una causa sacrosanta». Spiega quindi che, poiché «la Libia rappresenta per noi un interesse vitale per la sua vicinanza, il dramma dei profughi, il rifornimento energetico», il governo sta lavorando, manco a dirlo, per «un intervento di peacekeeping, che vedrebbe l‘Italia impegnata in prima fila». E alla domanda di Lerner se «bisogna rivedere la strategia del disimpegno occidentale nella lotta contro l’Isis», risponde: «È un impegno che ricade naturalmente anche sull’Italia, con i suoi ottomila km di coste, ma tutta l’Europa è chiamata a farsi carico di affrontare questa minaccia». E aggiunge che «abbiamo coltivato l’illusione di un mondo futuro tranquillo e pacificato, ma ora sappiamo di non poter più delegare le nostre responsabilità agli americani, strategicamente meno interessati di noi alle sorti del Medio Oriente».
Questa in sintesi l’intervista che, se non fosse per la drammaticità dell’argomento, rischia di apparire come un teatrino comico. Paolo Gentiloni (Pd), formatosi secondo Lerner nella «cultura del pacifismo e del disarmo» — come si sa, in Italia tanti sono stati da giovani contro la guerra, (perfino Benito Mussolini) — è però ora esponente di quello schieramento politico bipartisan che, stracciato l’articolo 11 della nostra Costituzione (e l’allora trattato di amicizia italo-libico), ha messo a disposizione nel 2011 le basi e le forze aeree e navali dell’Italia per la guerra Usa/Nato alla Libia. In sette mesi i cacciabombardieri, decollando per la maggior parte dall’Italia, effettuavano 30mila missioni, di cui 10mila di attacco, con impiego di oltre 40mila bombe e missili.
Venivano allo stesso tempo infiltrate in Libia forze speciali: migliaia di commandos occidentali e qatariani. Venivano finanziati e armati i settori tribali ostili al governo di Tripoli e anche gruppi islamici fino a pochi mesi prima definiti terroristi.
Tra questi, i primi nuclei del futuro Isis — frutto diretto della «sacrasonta», per Gentiloni, cacciata di Gheddafi — che, dopo aver contribuito a rovesciare il Colonnello libico, sono passati in Siria per rovesciare Assad.
E in Siria, nel 2013, è nato l’Isis che ha ricevuto finanziamenti, armi e vie di transito dai più stretti alleati degli Usa (Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Turchia, Giordania) in un piano coordinato da Washington (in barba al «disimpegno occidentale» di cui parla Lerner), lanciando poi l’offensiva in Iraq.
Ma a quanto pare per l’Italia è come se questo disastro non fosse mai accaduto. È la stessa Italia che ha contribuito ad appiccare «l’incendio» di cui parla Lerner, scaturito dalla demolizione dello Stato libico e dal tentativo, non riuscito, di demolire quello siriano in base agli interessi strategici degli Usa e delle maggiori potenze europee, provocando centinaia di migliaia di vittime (per la maggior parte civili) e milioni di profughi.
La battuta tragicomica di Gentiloni che gli Usa sono «strategicamente meno interessati di noi alle sorti del Medio Oriente» è un penoso tentativo di nascondere la realtà.
Il lancio in Libia di una operazione di «peacekeeping» (ossia di guerra), con l’Italia in prima fila, rientra nei piani di Washington che, non volendo impegnare truppe Usa in una operazione terrestre in Nordafrica (considerato nella strategia Usa un tutt’uno col Medio Oriente), cerca alleati disponibili a farlo e a pagarne costi e rischi.
Già nel giugno 2013, nell’incontro col premier Letta al G8, il presidente Obama chiese «una mano all’Italia per risolvere le tensioni in Libia». E Letta, da scolaro modello, portò il compito già fatto: «Un piano italiano per la Libia».
Quello che il premier Renzi ha copiato e ora ripropone per bocca di Gentiloni, promosso a ministro degli esteri anche per i meriti acquisiti quale presidente della sezione Italia-Stati Uniti dell’Unione Interparlamentare.
Manlio Dinucci Tommaso Di Francesco
27.11.2014