La tragedia di Gaza ai tempi della “primavera araba”
Si tratta di un nuovo rito israeliano. Tra “il giorno delle elezioni” e il “giorno dell’inaugurazione”, date chiave della democrazia statunitense, Israele segna questo periodo e prepara le proprie elezioni bombardando spudoratamente Gaza e i suoi abitanti. Come un cacciatore che spara con un fucile dar caccia grossa contro qualsiasi cosa che si muove in una voliera, con la motivazione che il volatile l’ha inavvertitamente beccato, lo Stato ebraico stermina uomini, donne e bambini a Gaza, dopo aver volontariamente trasformato la terra palestinese in una prigione a cielo aperto. E questo non gli preclude di battersi il petto e di vantarsi delle proprie “gesta” sotto lo sguardo compiacente dei paesi occidentali, che non vedono, nell’uso di questi fuciloni, che l’equivalente dei colpi di becco. Tuttavia, tra la mortale operazione israeliana “Piombo Fuso” (fine 2008-inizio 2009) e quella stranamente denominata “Pilastro della difesa” che ha avuto luogo di recente, il mondo arabo ha vissuto la sua “primavera”. E una domanda fondamentale si pone: questo sconvolgimento politico visto da alcuni come fondamentale, quale impatto ha avuto sulla situazione degli abitanti di Gaza, in particolare, e sulla causa palestinese in generale? Nell’elencare i protagonisti arabi o musulmani che hanno monopolizzato la scena mediatica e si sono impegnati a una possibile mediazione tra Hamas e Israele, è possibile avere una risposta. Da questo punto di vista, lo scompiglio nel cortiletto di Cairo registratosi il 17 novembre, è molto rivelatore. Quel giorno, il presidente egiziano Mohamed Morsi, il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan, l’emiro del Qatar Hamad bin Khalifa al-Thani e il leader di Hamas Khaled Meshaal si trovavano tutti insieme nella capitale egiziana. E quest’”allineamento dei pianeti” era tutt’altro che accidentale.
L’Egitto di Morsi
Dopo la sua elezione post-primaverile Mohamed Morsi, presidente islamista di “recupero” dopo l’ineleggibilità di Khairat al-Chater (eminenza grigia dei Fratelli musulmani), sa perfettamente che la sistemazione del dossier di Gaza è per lui di fondamentale importanza sotto diversi aspetti. In primo luogo, gli permetterebbe di guadagnare credibilità nella questione palestinese, credibilità colpita dalle ricorrenti chiusure del valico di Rafah, distruzione dei tunnel per il contrabbando tra i due Paesi (provocando l’ira dei palestinesi per la prima volta da quanto Morsi è al potere) e soprattutto dalla divulgazione delle lettere assai “amare” tra Morsi e il presidente israeliano Shimon Peres. In effetti, questo scambio di lettere apparentemente aneddotico ha scioccato gli egiziani che votano verso ciò che chiamano “entità sionista” un odio viscerale. E’ vero che frasi come “mio caro e grande amico” e “tuo amico fedele” [1] rivolte a Peres da Morsi hanno qualcosa di stupido, soprattutto quando si sa che sono scritte da un membro dei Fratelli musulmani, che ha sempre sostenuto la lotta contro l’occupante sionista. La reazione della strada egiziana è stata così forte che la presidenza ha sostenuto che si trattava di un falso [2], prima di riconoscere che le espressioni usate erano “formali” (sic) [3]. Le cortesie tra i due presidenti sono continuate in questi giorni: il presidente Peres ha detto di aver accolto con favore gli “sforzi” del Presidente Morsi “d’introdurre un cessate-il-fuoco” nel conflitto di Gaza [4]. Va notato che queste confidenze tra presidenti sono in netto contrasto con il comportamento naturale di certi personaggi egiziani incstrati, allo stesso tempo, in un programma tipo “candid camera” in cui gli viene fatto credere di essere intervistati da una rete israeliana. [5] Le reazioni degli ospiti erano sempre al di sopra delle righe, nervose e assai violentemente anti-israeliane, facendo infuriare la stampa dello Stato ebraico e suscitando accuse di antisemitismo inondanti la blogosfera. [6] Per quanto riguarda la distruzione, da parte dell’esercito egiziano, dei tunnel per il contrabbando al confine tra Egitto e Gaza, è stata decisa dal governo Morsi a seguito degli attentati mortali del 5 agosto 2012 da parte di un commando definito dalle autorità jihadista [7]. Tuttavia, i Fratelli musulmani del presidente Morsi hanno accusato il Mossad di essere dietro questi attacchi, a tale affermazione ha fatto eco ad Ismail Haniyeh, capo del governo di Hamas a Gaza. [8] Ciò è molto plausibile, in quanto la demolizione di tunnel è stata attuata principalmente per la sicurezza dello Stato d’Israele. Lo strano in questo caso, è la velocità con cui è stata presa la decisione di distruggere i tunnel. Da qui a pensare che ci fosse una collusione, non è difficile. Tanto più che le autorità israeliane hanno curiosamente accettato la presenza di truppe egiziane nella zona “C” del Sinai, solitamente autorizzata solo alla polizia egiziana, ma del tutto vietata all’esercito egiziano, secondo gli accordi di Camp David. [9] Ricordate che questa zona è una striscia di terra nella penisola del Sinai, lungo il confine israelo-egiziano fino al Golfo di Aqaba, che si estende da Rafah a Sharm el-Sheikh. In secondo luogo, Morsi sa che un ben orchestrato atteggiamento nel conflitto israelo-palestinese lo libererebbe dall’immagine negativa di Presidente “ruota di scorta”, senza scopo e con poco carisma. [10] Per questo motivo, ad esempio, ha richiamato l’ambasciatore egiziano in Israele e inviato il suo primo ministro a Gaza, all’inizio dell’aggressione contro Gaza. Queste decisioni presentate come “eroiche” non spiegano perché ci sia voluto il bombardamento per inviare un dirigente egiziano nell’enclave palestinese. In effetti, data la vicinanza e l’affinità ideologica tra Hamas e la Fratellanza musulmana egiziana, e l’esultanza di Gaza per l’annuncio dell’elezione alla presidenza di Morsi, ci si sarebbe aspettati che il presidente egiziano si recasse a Gaza subito dopo la sua elezione. Ma Morsi non l’ha mai fatto, mentre l’emiro del Qatar vi ha recentemente compiuto una visita ufficiale. Tuttavia, dopo lo scontro di Hamas con i funzionari siriani, il governo egiziano ha autorizzato l’organizzazione palestinese a trasferire la sua sede principale da Damasco a Cairo. Questa disputa è dovuta al riconoscimento, da parte di Hamas, della coalizione ribelle siriana costituita prevalentemente da combattenti islamici. Anche se la decisione egiziana di offrire un ufficio a Hamas fa rabbrividire molti osservatori, è stata accolta con favore dalla Fratellanza musulmana egiziana. [11] Questi osservatori hanno visto un cambiamento importante nella politica egiziana, che riteneva l’OLP, (l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina) unico rappresentante legittimo dei palestinesi. Ovviamente, non poteva essere altrimenti per la fratellanza. Non è utile ricordare che nella sua prima visita ufficiale da primo ministro di Hamas, Ismail Haniyeh si era recato dai Fratelli musulmani egiziani? E che questo stesso capo di governo aveva dichiarato che Hamas è un “movimento jihadista della Fratellanza dal volto palestinese” [12]? Dobbiamo renderci conto che, nel contesto della “primavera” araba, la decisione di ospitare Hamas a Cairo è al tempo stesso, sia il desiderio di Morsi d’isolare il presidente Bashar al-Assad, sia il desiderio egiziano d’influenzare la futura strategia del governo del movimento islamico palestinese di Gaza, insieme ad altri attori influenti come il Qatar. In terzo luogo, il rais egiziano è ben consapevole che ottenendo un cessate il fuoco nel conflitto israelo-palestinese, otterrebbe anche l’effetto di ridare un ruolo centrale all’Egitto nella questione palestinese. Inoltre, permetterebbe alla sua diplomazia nel mondo arabo di migliorare la propria immagine dopo essere stata pesantemente emarginata negli ultimi anni, in favore di certe monarchie del Golfo. Così, oltre al problema di Gaza, la riunione tripartita Egitto-Qatar-Turchia aveva certamente un altro punto all’ordine del giorno: la Siria. Infatti, due giorni dopo la riunione di Cairo si apprendeva che la nuova coalizione della rivolta siriana, a Doha, si sarebbe basata a Cairo [13], mentre il vecchio Consiglio nazionale siriano (CNS) aveva sede a Istanbul. Quattro giorni dopo, il Qatar ha annunciato la nomina di un suo ambasciatore presso la coalizione siriana, un’organizzazione composta da diversi gruppi di ribelli costretti, sotto la pressione degli Stati Uniti, ad unirsi [14]. Tra l’altro, con la notevole assenza all’incontro di Cairo, dell’Arabia Saudita, uno dei principali protagonisti dalla “primaverizzazione” della Siria. E questa assenza è tutt’altro che una coincidenza, se si considerano le differenza nella copertura mediatica dell’assalto israeliano a Gaza, tra il canale del Qatar al-Jazeera e quello saudita al-Arabiya, che implicitamente riflettono le differenze politiche tra i due paesi su Gaza. [15] Mentre aveva più volte annunciato l’intenzione di rivedere gli accordi di Camp David, Morsi ha cambiato idea quando Israele ha sollevato un’eccezione di irricevibilità dell’idea. [16] Questo apparente “successo” di Morsi nella cessazione delle ostilità tra Israele e Hamas però, gli permette di giustificare il suo cambiamento di rotta, rafforzando così l’idea della necessità dell’Egitto d’essere l’”interlocutore ufficiale” credibile dello stato ebraico, grazie agli accordi sottoscritti tra i due Paesi. In questa campo, Morsi non è poi così diverso dal suo predecessore Mubaraq, spazzato via dalla sommossa. Ma questa mancanza di audacia politica del presidente islamista, non ha cambiato l’ardore di alcuni attivisti pro-democrazia, che hanno presentato al tribunale amministrativo di Cairo una richiesta di annullamento del trattato di Camp David, in modo che il loro paese possa godere della piena sovranità politica e militare sulla penisola del Sinai. Il 30 ottobre, il ricorso è stato respinto per motivi di “incompetenza in materia” del giudice, sostenendo che i campi della politica internazionale e della sovranità del paese sono di responsabilità del presidente della repubblica. [17] Morsi si degnerà uno giorno di mantenere la promessa, che è anche quella della confraternita da cui proviene? Nell’attuale contesto geopolitico, è dubbio.
Il Qatar e la “primaverizzazione” degli arabi
Il 23 ottobre 2012, esattamente tre settimane prima della selvaggia aggressione israeliana denominata “Pilastro della difesa,” l’emiro del Qatar effettuava una visita a Gaza. Questa breve visita, descritta “storica” da alcuni osservatori, essendo la prima di un capo di Stato dal 2007, anno della presa (democratica) del potere di Hamas a Gaza, non sarebbe mai stata possibile senza l’approvazione di Egitto e Israele in particolare. Ovviamente, questo viaggio dell’emiro è stato accompagnato dalla generosa distribuzione di petrodollari, ma è chiaro che il suo obiettivo non è solo la filantropia. Come spiegare altrimenti che la generosità del Qatar ha avvantaggiato solo il governo islamico di Hamas, ma non l’intera popolazione palestinese? E perché l’emiro del Qatar non ha colto l’occasione per visitare la Cisgiordania dell’autorità palestinese? In effetti, su questo punto, il Comitato Esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) non ha apprezzato la visita. “I paesi arabi non dovrebbero perseguire la politica volta a creare un’entità separata nella Striscia di Gaza, che favorisce fondamentalmente i piani israeliani”, aveva dichiarato [18]. Infatti, il comportamento del Qatar verso la Palestina è in perfetta armonia con la volontà d’onnipresenza di questo emirato nella “primaverizzazione” del mondo arabo, un’azione che si basa sul sostegno incrollabile degli islamisti nel mondo arabo e in particolare dei Fratelli musulmani. Questa politica si è vista in Egitto, Tunisia, Libia, Siria e ora a Gaza. D’altra parte, il Qatar ha strette relazioni con Stati Uniti e molti paesi occidentali (relazioni che non ha mai cercato di nascondere, anzi tutto il contrario), è ragionevole pensare che questa visita abbia un significato politico che potrebbe anche servire interessi diversi da quelli della Palestina. In tale ottica, Jean-Pierre Béjot pone le seguenti domande: “Gli statunitensi, che danno l’idea di gestire il Qatar, hanno dato il via libera a questa visita? Questa visita era volta ad isolare la Siria e l’Iran che fino ad oggi erano i principali partner di Hamas?”[19]. Rashid Barnat va anche oltre: “A meno che il suo ‘gioco’ [del Qatar] non rientri nella strategia degli Stati Uniti: 1 – neutralizzare gli estremisti ‘da dentro’, sottraendoli da un probabile recupero iraniano sciita! Cosa che ha fatto l’emiro del Qatar recandosi nella Striscia di Gaza di Hamas, che ha flirtato con il regime degli ayatollah e ha sostenuto Assad, un altro “amico” dell’Iran. E 2 – consentire una ripresa del dialogo tra palestinesi e israeliani, affinché Obama […] attui il suo bel programma del discorso d’insediamento: eliminare un problema che affligge le relazioni internazionali da oltre 60 anni!“[20]. A questo proposito, alcune fonti hanno riferito di una discussione estremamente interessante tra Hamad bin Khalifa al-Thani e Ismail Haniyeh, durante la visita dell’emiro a Gaza. Secondo esse, l’incontro si è concluso con un disaccordo evidente perché il Qatar ha posto specifiche condizioni: a) rompere l’alleanza con l’Iran, b) l’apertura di negoziati con l’entità sionista senza precondizioni, c) il riconoscimento di Israele, d) il riconoscimento di Gerusalemme a capitale di Israele e abbandono del recupero della sua orientale, ed e) l’annuncio della fine della resistenza armata e l’avvio di negoziati quali unica soluzione [21]. In definitiva, sembra che la presenza del Qatar a Cairo come importante mediatore nella questione palestinese, sia collegato ad un doppio piano. Il primo riguarda la “primaverizzazione” della causa palestinese, promuovendo il predominio di Hamas rispetto ad altri gruppi rivali e marginalizzando de facto a Gaza l’Autorità palestinese di Cisgiordania. L’obiettivo finale sarebbe la creazione di un unico governo islamico guidato da Hamas in tutti i territori palestinesi? Il secondo è legato all’abbandono dell’ala militare di Hamas e il suo allontanamento dall’”Iran sciita”, che forniva le armi. Alla luce di tutto ciò, tutto sembra suggerire che i retroscena di queste manovre siano la negoziazione di una “pace” con lo Stato ebraico d’Israele con la benedizione degli USA. E l’emiro del Qatar detiene una carta importante per il successo del progetto: Khaled Meshaal, il leader di Hamas, che apertamente si è allineato con la politica del Qatar nel riconoscere la ribellione siriana, rompendo con Bashar al-Assad (che l’ha sostenuto e finanziato per anni) e lasciando Damasco, dove ha vissuto, trasferendosi al Four Seasons Hotel di Doha, “sotto la protezione dei suoi ospiti del Qatar” [22]. L’emiro del Qatar non possiede l’arte di sedurre coloro che alla fine diventano i suoi scagnozzi? Meno di una settimana dopo la fine dell’operazione “pilastro della difesa”, il desiderio di Hamas di allontanarsi dall’Iran veniva confermato da Moussa Abu Marzouk, vicecapo dell’ufficio politico di Hamas. Dalla sua nuova sede di Cairo, ha dichiarato che “l’Iran dovrebbe riconsiderare il suo sostegno al regime siriano”. [23] Questo desiderio di emancipazione dall’Iran è stato formulato, con cautela, da Ziad Nakhal, il vicesegretario generale della Jihad islamica palestinese. Pur riconoscendo che “senza il sostegno militare dell’Iran, la resistenza palestinese non avrebbe combattuto da molti anni“, aggiunge che “se gli arabi vogliono sostituire l’Iran, saranno i benvenuti e ringrazeremo Iran“. [24] Questo invito è volto particolarmente al Qatar. Infatti, come è possibile che il ricco emirato del Golfo, che arma i ribelli islamici in tutti i paesi arabi in cerca di una possibile “primavera” e ne sostiene la lotta contro i governi arabi, una volta amici, possa chiedere agli attivisti di Hamas d’abbandonare la lotta armata contro lo Stato di Israele, uno stato canaglia, xenofobo e assassino? Perché, al contrario, non armare i combattenti di una giusta e sacra causa come quella della Palestina, anche per acquistare un effetto dissuasivo che gli permetterebbe di negoziare da una posizione di forza, come fa apertamente in Siria? Bashar al-Assad sarebbe un nemico e Netanyahu un amico? La risposta dell’emiro del Qatar è inequivocabile: durante la conferenza stampa tenutasi il 19 novembre 2012 (quando Israele bombardava Gaza), in occasione della visita a Doha di Mario Monti, primo ministro italiano, ha affermato che “il sostegno del Qatar a Gaza si limita agli aiuti umanitari e alla ricostruzione, ma esclude le armi” [25].
Le armi di Hamas e l’industria sudanese
La notte dopo la visita dell’emiro del Qatar a Gaza (23-24 Ottobre 2012), l’aviazione israeliana bombardava il complesso militare Yarmouk, in Sudan, a sud di Khartoum. L’attacco era durato solo pochi minuti, ma le esplosioni che seguirono durarono diverse ore, indicando che lo stock di munizioni che conteneva era considerevole. Foto satellitari scattate prima e dopo l’attacco israeliano mostrano la distruzione totale del sito [26]. Il ministro dell’informazione sudanese, Ahmed Bilal Osman, ha detto che quattro aerei erano coinvolti nell’attacco e che prove fisiche (armi che non sono esplose) accusano direttamente Israele [27]. Anche se ha assicurato che il complesso produceva solo “armi convenzionali”, molti rapporti dicono che serviva da magazzino per i missili iraniani Shehab, ed era molto probabile che esperti iraniani fornissero l’assistenza tecnica per la fabbricazione di altri tipi di armi. Israele non ha mai riconosciuto l’attacco, ma i funzionari israeliani hanno accusato il Sudan di essere un punto di transito per l’invio di armi iraniane destinate ai combattenti di Hamas. [28] I missili iraniani, come il “Fajr-5″ che ha raggiunto Gerusalemme durante l’ultimo conflitto israelo-gazawi, vennero certamente inviati dall’Iran a Gaza attraverso il Sudan inizialmente, e successivamente introdotti nell’enclave palestinese attraverso i tunnel del Sinai. [29] Così è facile capire l’interesse d’Israele nel coinvolgere l’Egitto nella chiusura dei passaggi illegali. Ma ciò che attira maggiormente l’attenzione in questo caso, è il fatto che gli aerei israeliani hanno volato in questa missione, per circa 3600 km (andata e ritorno), senza essere individuati dal Sudan o da paesi “amici” come il vicino Egitto, la Giordania e l’Arabia Saudita. In un articolo dettagliato sull’attacco al complesso sudanese pubblicato dal Sunday Times, Uzi Mahmaini e Flora Bagenal spiegano che gli aerei israeliani avevano volato lungo il Mar Rosso, bypassando il sistema di difesa aerea dell’Egitto [30]. Alcuni giornalisti egiziani hanno persino messo in dubbio che gli aerei abbiano attraversato lo spazio aereo del loro paese. Nella sua rubrica intitolata “Morsi ha paura d’Israele“, Mohamed Dassouki Rashdi ha scritto: “Non metto in dubbio le capacità egiziana e non lo faccio, ma semplicemente affermo il diritto del popolo di sapere se il suo territorio o spazio aereo sono stati utilizzati per un attacco a un paese vicino, o no.” Aggiungendo: “Com’è possibile che Israele sia riuscito ad attuare la distruzione del complesso sudanese con tale precisione e silenzio, senza che l’Egitto se ne accorgesse o che vi fosse alcuna reazione delle autorità egiziane? Come è possibile che gli aerei potessero volare per quattro ore, per distruggere una parte di un paese fratello, senza che il sonno degli ufficiali egiziani venisse disturbato?“[31]. E’ la Presidenza della Repubblica che si è assunta la responsabilità di rispondere (rivelando la gravità del sospetto), negando l’uso dello spazio aereo egiziano agli aerei israeliani, ma senza smentire le informazioni relative al sorvolo suggerite dal Sunday Times. [32] Se l’ipotesi avanzata dal quotidiano britannico è vera, è legittimo porsi dei seri interrogativi sulle capacità della difesa aerea egiziana, a meno che la terra dei faraoni sia stata volontariamente cieca di fronte al bombardamento del Sudan, per garantirsi che le armi accumulate in Sudan venissero distrutte e i nuovi missili iraniani non passassero i tunnel del Sinai. Un’altra ipotesi riguardante la rotta seguita dagli aerei israeliani è stata avanzata da Ali Akbar Salehi, il ministro degli esteri iraniano. Secondo le sue informazioni, la squadriglia ha sorvolato la Giordania, l’Arabia Saudita e l’Eritrea prima di bombardare il bersaglio sudanese, il che spiegherebbe il fatto che i testimoni sudanesi abbiano notato che gli aerei nemici provenissero da est [33]. Qualunque sia l’ipotesi, vi sono seri dubbi sul coinvolgimento di diversi paesi arabi nell’aggressione del Sudan, un paese “fratello” che è, inoltre, membro della Lega Araba. A meno che Israele abbia utilizzato direttamente le sue basi nell’arcipelago delle Dahlak eritree [34], ma questa possibilità non è stata avanzata da nessun osservatore.
La Turchia e il neo-ottomanesimo
La politica estera del primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan e del suo ministro degli esteri Ahmet Davutoglu è più opportunismo che realpolitik. Originatasi dalla dottrina di “problemi zero” con i vicini, questa politica si è gradualmente evoluta dalla non ingerenza all’interferenza attiva mentre la “primavera” araba continuava a dilagare, da Cairo a Damasco. Così, anche se inizialmente dichiarava “che non ho intenzione di interferire negli affari interni dei paesi arabi” [35] Erdogan s’impegnava a favore del Consiglio nazionale di transizione (CNT) dei ribelli in Libia, dimenticando che solo pochi mesi prima aveva ricevuto, a Tripoli, il Premio Gheddafi 2010 per i diritti umani dal colonnello Gheddafi. [36] Ma la campana a morto della politica dei “zero problemi”, che dopo tutto era effimera, suonò quando è scoppiato il conflitto siriano. Sotto la guida degli Stati Uniti, Erdogan ha tradito il presidente siriano, lo stesso che un tempo considerava un “amico”, dando alla Turchia un ruolo di primo piano nella sanguinosa guerra civile. Questa posizione aggressiva nei confronti di un paese con il quale la Turchia ha firmato accordi di libero scambio nel 2004, e abolito i visti nel 2009 (l’ultima volta Erdogan l’ha visitata il 17 gennaio 2011, su invito del suo “amico” Bashar Assad), non ha nulla a che fare con i principi morali dettati dall’introduzione di una qualsiasi democrazia in Siria. Il precedente libico è illuminante a tale proposito. La Turchia vuole piuttosto cavalcare l’onda dilagante dei governi islamici che hanno preso il potere nei paesi arabi “primaverizzati”, e vuole fare dell’AKP (Adalet ve Kalkinma Partisi o Partito della giustizia e dello sviluppo) di Erdogan, un modello. Il neo-ottomanismo avanzato da Erdogan e Davutoglu viene definito come la volontà di reinventare, a livello diplomatico ed economico turchi, la sfera d’influenza ottomana. [37] Pertanto, l’attuazione di questa politica di conquista sfrutta l’ascesa al potere del sunnismo politico in molte repubbliche arabe, presentando la Turchia quale modello del successo economico ottenuto da un governo islamico. Insieme a ciò la Turchia ha costruito un notevole capitale di simpatia, presso il mondo arabo, optando per un profilo filo-palestinese e molto populista. Lo scontro suscitato da Erdogan a Davos, il 29 gennaio 2009, è un esempio molto esplicito [38] e la sua presenza alla riunione tripartita Egitto-Qatar-Turchia del 17 novembre 2012 a Cairo, rientra certamente in tale ambito. Ma va sottolineato che la Turchia, sebbene filo-palestinese, non s’impedisce in ogni caso di non essere anti-israeliana. E anche se le relazioni politiche tra la Turchia e Israele si sono raffreddate in modo significativo dall’”Operazione Piombo Fuso” e dal caso della Freedom Flotilla, nel campo militare o economico tutto continua secondo il “business as usual”. Ecco alcuni esempi. Quasi un anno dopo l’incidente di Davos, Ehud Barak, il ministro della difesa israeliano, venne ricevuto ad Ankara con tutta la sua delegazione. Al termine della visita, il ministro della difesa turco dichiarò che: “Fino a quando avremo gli stessi interessi, lavoreremo insieme per risolvere i problemi comuni. Inoltre, siamo alleati, siamo alleati strategici, come i nostri interessi ci obbligano ad essere.” Da parte loro, i funzionari israeliani hanno commentato la visita affermando che “nonostante le tensioni diplomatiche […], la loro impressione era che la visita sia stata un successo, e che i turchi sono interessati a mantenere buoni rapporti” [39]. Nel giugno 2011, il quotidiano israeliano Haaretz riportava di “colloqui diretti segreti Israele e Turchia per ridurre la frattura diplomatica.” Veniamo a sapere che “i funzionari turchi e israeliani hanno avuto colloqui diretti segreti per cercare di risolvere la crisi diplomatica tra i due paesi” e che “i negoziati hanno il sostegno statunitense” [40]. In un articolo significativamente intitolato “riparazioni d’Israele e consegna di quattro droni alla Turchia come possibile segno di riapertura delle relazioni“, pubblicato il 19 maggio 2012 dal “Times of Israel”, si leggeva che Erdogan avrebbe detto che “chi qui potesse avere problemi con persone e risentimenti, può astenersi dal meeting. Tutto questo è possibile, ma quando si tratta di accordi internazionali, vi è un’etica del commercio internazionale“. [41] Quindi, è chiaro che il neo-ottomanesimo della Turchia di Erdogan e Davutoglu non danneggia le relazioni turco-israeliane, anche se le apparenze mostrano un discorso rivendicativo contro lo stato ebraico, discorso destinato ai popoli arabi, per i quali la causa palestinese è un argomento molto delicato.
Obama e i suoi piccoli piaceri asiatici
L’aggressione israeliana contro Gaza è coincisa con un breve ma piacevole tour in Asia del presidente Obama. E tra alcuni sguardi e posture d’intesa dell’attraente premier thailandese Yingluck Shinawatra, e alcuni baci “rubati” con Aung San Suu Kyi dell’opposizione birmana [42], il presidente degli Stati Uniti ha apprezzato il suo soggiorno mentre le bombe israeliane distruggevano Gaza e gli abitanti di Gaza. Dobbiamo affrontare il fatto che i Nobel per la Pace non valgono molto di questi tempi. Come spiegare altrimenti la mancanza di compassione dei due vincitori di questo prestigioso premio, in questo caso Obama (2009) e Aung San Suu Kyi (1991), per le vittime di Gaza; nessun appello per la pace è stato lanciato di concerto da questa coppia di premi Nobel in cima ai gradini della residenza di Rangoon dell’ex dissidente birmana? Al contrario, Obama ha costantemente riaffermato “il diritto d’Israele a difendersi”, vale a dire bombardare con armi pesanti un popolo sotto assedio. Devo ammettere che il sostegno incondizionato del presidente degli Stati Uniti allo stato ebraico è in completa contraddizione con il suo famoso discorso di Cairo, dove ha affermato che “per più di sessant’anni, [il popolo palestinese] ha sopportato il dolore dell’esilio. Molti attendono nei campi profughi della Cisgiordania, di Gaza, dei Paesi vicini, una vita di pace e sicurezza che non hanno mai avuto il diritto di godersi. Sopportano umiliazioni quotidiane […], la situazione del popolo palestinese è intollerabile. L’America non volterà le spalle alla legittima aspirazione del popolo palestinese alla dignità, all’opportunità e a uno Stato proprio.” A proposito del famoso “diritto all’auto-difesa” di Israele, la giornalista israeliana Amira Hass la chiama la “grande vittoria della propaganda”, aggiungendo che “sostenendo l’offensiva israeliana su Gaza, i leader occidentali hanno dato carta bianca agli israeliani per fare quello che sanno fare meglio: sguazzare nel loro status di vittima e ignorare le sofferenze dei palestinesi”. [43] Una settimana dopo il conflitto, Hillary Clinton si recava in Israele e in Egitto per discutere con i protagonisti. Il cessate il fuoco tra Hamas e Israele era stato proclamato il giorno del suo arrivo a Cairo e credito venne concesso al presidente Morsi. Strana consacrazione del presidente egiziano che aveva invano annunciato la fine delle ostilità, quel giorno, sebbene non fosse nemmeno stato in grado di fermare i bombardamenti di Gaza (anche se solo temporaneamente, e nonostante le promesse di Israele), mentre il suo primo ministro Hisham Kandil era in visita nell’enclave palestinese. [44] Il giorno dopo l’annuncio del cessate il fuoco, il New York Times pubblicava un articolo sui motivi reali dell’operazione “Pilastro della difesa.” Gli autori, David E. Sanger e Thom Shanker, spiegavano che “Il conflitto di Gaza è un test d’Israele rivolto contro l’Iran.” In effetti, secondo alcuni funzionari statunitensi e israeliani, l’operazione militare di una settimana è stata l’esercitazione per un possibile confronto futuro con l’Iran. [45] Queste esercitazioni servivano ad analizzare l’efficacia dei nuovi missili di fabbricazione iraniana in grado di raggiungere Gerusalemme, e testare l’affidabilità del sistema di difesa antimissile “Iron Dome“, messo a punto da Israele. Elemento molto interessante, l’articolo riporta anche che il bombardamento israeliano del complesso Yarmouk in Sudan, fosse solo la prima parte di un più generale indebolimento dell’Iran, proseguito con il conflitto di Gaza. E’ chiaro che per Israele, i due attacchi hanno simili obiettivi strategici: i) la distruzione delle scorte di armi dei nemici, ii) l’addestramento delle truppe israeliane a un possibile conflitto armato diretto contro l’Iran. In effetti, la precisione e l’abilità con cui è stata condotta l’operazione contro il sito del Sudan (distanza, rifornimento di carburante, disturbo delle comunicazioni nemiche, attacchi chirurgici) dimostrano che lo Stato ebraico ha i mezzi tecnici per un attacco aereo ai siti nucleari iraniani, che si trovano a distanze minori o uguali a quelle tra Israele e Yarmouk. D’altra parte, la distruzione delle armi destinate o utilizzate (rispettivamente in Sudan e Gaza), dalla resistenza palestinese, riduceva al minimo il rischio di aprire ulteriori fronti di lotta, se la decisione di attaccare l’Iran dovesse essere presa. Se a ciò si aggiunge la partecipazione attiva dell’Egitto alla chiusura dei tunnel in Sinai e il coinvolgimento del Qatar nel convincere Hamas ad accettare un cambiamento del paradigma rivoluzionario, le condizioni di un attacco israeliano contro obiettivi iraniani diventano più favorevoli per Israele e, naturalmente, per gli Stati Uniti, il loro fedele alleato in questa “crociata”. Infatti, commentando l’articolo di David E. Sanger e Thom Shanker, Lucio Manisco ha scritto che “l’inchiesta del New York Times illumina la stretta collaborazione tra Washington e Gerusalemme nei preparativi per l’offensiva contro Gaza, e di quelli di più ampia portata previsti nei prossimi mesi contro l’Iran“. [46] C’è, invece, la forte evidenza della collaborazione tra i due paesi nell’attacco al complesso di Yarmouk. Così, il quotidiano arabo al-Hayat ha citato ufficiali sudanesi dire che gli Stati Uniti sapevano dell’attacco, avendo subito chiuso la loro ambasciata a Khartoum, per paura delle rappresaglie. [47] Se si considera tutto questo, è facile la disinvoltura e la flemma del presidente Obama durante il suo viaggio in Asia: ha aspettato pazientemente che la prevista esercitazione delle forze israelo-statunitense terminasse, per mandare la sua segretaria di Stato a chiedere un cessate il fuoco tra i belligeranti. Capiamo perché Israele, contrariamente al solito, non ha reagito all’attacco del 21 novembre 2012 a un autobus di Tel Aviv, né posticipato la data della fine delle ostilità.
Sunniti e sciiti: uno scisma politico
La riconfigurazione geopolitica del MENA (Medio Oriente e Nord Africa) a seguito della “primavera” araba, ha causato uno scisma politico sunnita-sciita. Questo scisma, che è diventato basilare nel conflitto siriano a causa della diversità dei culti in questo paese, ha un impatto diretto sulla causa palestinese. Due assi sono emersi nella regione: l’asse sunnita rappresentato, tra gli altri, da Egitto, Qatar e Turchia, e l’asse sciita formato da Iran, Siria e Hezbollah. Il primo asse ha ottimi rapporti con i paesi occidentali, mentre il secondo gruppo è attualmente l’”asse del male” per quei paesi. E’ chiaro che la riunione del 17 novembre a Cairo, costituito esclusivamente da paesi sunniti, e la presenza di Khaled Meshaal, fosse ovviamente destinato ad allontanare Hamas dagli sciiti (Iran in particolare), che la rifornivano di armi. E’ chiaro che statunitensi ed europei giocano su questa divisione per isolare meglio e quindi indebolire l’asse sciita. Lo scisma politico ha il suo contraltare religioso, meno insidioso ma altrettanto virulento. Così, la star televisiva di al-Jazeera, il telepredicatore del Qatar, lo sceicco al-Qaradawi, ha attaccato gli iraniani per il loro ruolo in Siria, dicendo che “hanno fallito nella loro missione e ora uccidono musulmani [cioè siriani sunniti] che non sono della loro stessa setta religiosa.” Ha poi chiamato tutti i pellegrini musulmani ad implorare Dio per punire l’Iran. [48] Si è ancora lontani dal momento in cui lo sceicco fustigava Israele, pregando Dio di dargli la possibilità, al tramonto della sua vita, “di sparare ai nemici di Allah, gli ebrei“. [49] La “primavera” araba è passata anche di lì, la sua alleanza con l’emiro del Qatar non gli permette di emettere condanne a morte che contro arabi o musulmani, in un allineamento esemplare tra politica e religione. È probabilmente per questa ragione, che non abbiamo quasi sentito alcuna condanna della selvaggia aggressione israeliana contro la popolazione di Gaza. In conclusione, possiamo dire che la causa palestinese è senza dubbio influenzata dalla “primavera” araba. Il blocco sunnita rappresentato da Egitto, Qatar e Turchia (tutti e tre i paesi hanno ottimi rapporti con gli Stati Uniti), si prefigge di espellere Hamas dalla zona di influenza sciita iraniana, che la riforniva delle armi necessarie alla sua resistenza contro l’occupazione israeliana. La rottura di Khaled Meshaal con Bashar al-Assad, la sua alleanza con l’emiro del Qatar e il trasferimento della sede principale di Hamas da Damasco a Cairo, sono tutti segni che non ingannano. L’unica incognita in questo caso è la posizione della resistenza palestinese che opera a Gaza e che ha bisogno vitale delle armi per affermare la sua legittimità in conformità con l’ideologia del movimento. A meno che il Qatar non riesca a convincerli a rinunciare alle loro armi e ad optare per una via più pacifica, che potrebbe condurre a liberarsi della loro “organizzazione terroristica”, etichetta attribuitagli da molti paesi occidentali, e ad aderire al tavolo dei negoziati. Tuttavia, considerando gli scarsi risultati ottenuti dall’Autorità palestinese nell’adottare un tale approccio, ci si può aspettare che Hamas non avrà maggior successo. È sempre più chiara la dichiarazione di Leila Shahid, delegata generale dell’Autorità palestinese presso l’Unione europea: “La nostra strategia non violenta contro Israele è un fallimento […] abbiamo fermato la lotta armata […] e Israele ci ha dato uno schiaffo“. [50] Inoltre, e contrariamente alle apparenze i) il governo islamista di Morsi sembra mantenere rapporti privilegiati con lo Stato ebraico (corrispondenza affettuosa, la distruzione dei tunnel del Sinai, nessuna reazione all’attacco al complesso sudanese), ii) la politica neo-ottomanista della Turchia non danneggia le relazioni turco-israeliane che restano strategiche iii) le relazioni USA-Israele sono in buona forma e sulle questioni palestinese e iraniana, la collaborazione è esemplare. Mentre la Lega Araba, che un tempo aveva la questione palestinese al centro delle sue preoccupazioni, ora è completamente sottomessa agli interessi USA. Ciò che spinge alcuni a dire che questa istituzione non può davvero adottare che azioni che danneggino il mondo arabo! Infine, è interessante vedere l’oscillazione del pendolo che si svolge in Palestina: a Gaza, viene fatto di tutto per rendere Hamas frequentabile per Israele e gli Stati Uniti, nella West Bank, l’Autorità palestinese provoca le ire di Tel Aviv e Washington, e nonostante le pressioni e le intimidazioni, ottiene lo status di osservatore presso le Nazioni Unite. Il che ci porta alla domanda esistenziale: prima di discutere del ruolo di paesi terzi, può esserci una soluzione al problema della Palestina senza una riunificazione politica dei due territori palestinesi?
Ahmed Bensaada
Montréal 6 dicembre 2012
La tragédie de Gaza à l’aune du « printemps » arabe
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora
Riferimenti
1- May Al-Maghrabi e Noha Ayman, “Morsi joue la realpolitik”, al-Ahram Hebdo, 24 ottobre 2012
2- Jonathan-Simon Sellem, “Égypte: “la lettre amicale de Morsi à Peres est une fausse””, JSSNews, 1 agosto 2012
3- al-Masry al-Youm, “Morsy’s letter to Peres not friendly, just protocol, say diplomats”, Egypt Independent, 18 ottobre 2012
4- L’Orient le jour, “Peres salue les “efforts” de Morsi pour une trêve”, 19 novembre 2012
5- E’ un programma televisivo egiziano intitolato “al-Hokm baad al-Moudawala”. È possibile vederne degli estratti delle puntate che hanno ottenuto un grande successo qui
6- Salma Abdelaziz, “Egyptian prank show exposes anti-Israeli sentiment”, CNN, 11 agosto 2012
7- Hélène Jaffiol, “Gaza: la fin des tunnels”, Slate.fr, 29 settembre 2012
8- AFP, “Égypte: selon les Frères musulmans, l’attaque du Sinaï peut être attribuée au Mossad”, Radio-Canada, 6 agosto 2012
9- Una eccellente carta interattiva del Sinai può essere consultata sul sito della FMO (Forza Multinazionale degli Osservatori in Sinai)
10- Ian Black, “Mohammed Morsi: Brotherhood’s backroom operator in the limelight”, The Guardian, 25 maggio 2012
11- Majdi Abou Eleil e Ahmed Tahar, “Le Hamas transfèrera au Caire son principal siège”, al-Watan News, 12 settembre 2012
12- Ramzy Baroud, “Hamas and the Brotherhood: Reanimating History”, Palestine Chronicle, 2 gennaio 2012
13- AFP, “La nouvelle Coalition syrienne basée en Égypte”, 24 Heures, 19 novembre 2012
14- Dedefensa.org, “Les dessous coquins de l’accord de Doha”, 14 novembre 2011
15- Amin Hamadé, “Comment Al-Jazira et sa rivale Al-Arabiya couvrent-elles la guerre à Gaza?”, Courrier International, 22 novembre 2012
16- Ria Novosti, “Égypte: aucune révision des accords de Camp David (officiel)”, 26 settembre 2012
17- Chimaa al-Karanchaoui, “Le tribunal administratif se déclare non compétent dans l’annulation ou la modification de “Camp David””, al-Masry al-Youm, 30 novembre 2012,
18- AFP, “Visite “historique” de l’émir du Qatar à Gaza”, Le Monde.fr, le 23 ottobre 2012
19- Jean-Pierre Bejot, “Qatar est-il le nouveau nom de “l’impérialisme”, de “la mondialisation”, de ”l’Internationale islamique”…? (3/4)”, La Dépêche diplomatique, 31 ottobre 2012
20- Rachid Barnat, “À quoi joue l’émir du Qatar?”, Kapitalis, 8 novembre 2012
21- al-Manar, “Hamad bin Khalifa à Haniyeh: rompez votre alliance avec l’Iran et…”, 17 novembre 2012
22- Georges Malbrunot, “L’émir du Qatar affiche son parti pris pro-Hamas à Gaza”, Le Figaro.fr, 23 ottobre 2012
23- AFP, “Hamas: L’Iran devrait reconsidérer sa position à l’égard du régime syrien”, al-Masry al-Youm, 26 novembre 2012,
24- Dichiarazione di Ziad Nakhal a Nile News, 27 novembre 2012.
25- Qatar Ministry of Foreign Affairs, “The joint press conference by HE Sheikh Hamad Bin Jassim Bin Jabr Al Thani, the Prime Minister and Minister of Foreign Affairs and Italian Prime Minister Mario Monti regarding the situation in Gaza”, 19 novembre 2012
26- Alain Rodier, “Israël-Soudan-Gaza: Frappe aérienne et riposte du Hamas”, Note d’actualité n°291, Centre Français de Recherche sur le Renseignement, Novembre 2012.
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28- AFP, “Le Soudan nie tout rôle de l’Iran dans son usine d’armes de Yarmouk”, Courrier International, 29 ottobre 2012
29- Global Security.org, “Hamas Rockets”, Novembre 2012
30- Uzi Mahmaini e Flora Bagenal, “Israeli Jets Bomb Sudan Missile Site in Dry Run for Iran Attack”, The Sunday Times, 28 ottobre 2012,
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47- Jonathan Schanzer, “Israël et les États-Unis viennent-ils juste de coopérer pour un Galop d’essai, en vue d’une Intervention en Iran?”, Israël Magazine, 2 novembre 2012
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49- Youtube, “al-Qaradawi praising Hitler’s antisemitism”, Video inserito il 10 febbraio 2009
50- Leïla Shahid, “Notre stratégie non-violente face à Israël est un échec”, RTBF, 18 novembre 2012