I Neoconservatori e il “mondo che verrà”: Risposta alle domande di un’amica virtuale
“Nell’emergente mondo di conflittualità etnica e di scontri tra civiltà, la fede occidentale nella validità universale della propria cultura ha tre difetti: è falsa; è immorale; è pericolosa”
(Samuel P. Huntington)
Cara amica, ho letto l’importante domanda che mi hai posto sul futuro del mondo secondo il punto di vista dei neoconservatori americani. Questa domanda ti è venuta in mente, piuttosto naturalmente, mentre leggevi l’intervista rilasciata da uno dei più entusiasti sostenitori di questa scuola di pensiero –Thomas Barnett– autore del controverso libro “The Pentagon’s New map: War and Peace in the twenty-first century”.
Certamente, qui ci stiamo occupando di una questione rilevante la cui comprensione è una conditio sine qua nonper decifrare sia le contingenze storiche sia le tendenze dominanti che caratterizzano l’evoluzione delle relazioni internazionali, in particolare dalla fine della guerra fredda.
Infatti, i disordini e gli sconvolgimenti che il mondo sta vivendo dall’inizio del terzo millennio, segnatamente nella regione che dovrebbe essere per te di massima importanza – ovvero il mondo arabo-musulmano – costituiscono una delle più significative manifestazioni del processo di cambiamento multidimensionale in corso. Molto probabilmente, questi sono i segni precursori del “mondo che verrà” –per usare le parole di Malek Bennabi– un mondo completamente differente da quello che abbiamo conosciuto dalla fine della Seconda guerra mondiale alla caduta del muro di Berlino e il conseguente collasso dell’impero sovietico nel 1992.
La successiva nuova realtà internazionale –la progressiva affermazione degli Stati Uniti d’America come unica superpotenza globale– si è rivelata essere di improbabile realizzazione poiché, a sua volta, si è dissolta per la crisi sia finanziaria che economica esplosa nel 2007-2008, che continua tuttora, e l’ascesa di nuovi determinati attori internazionali, inclusi i membri del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa).
Con tutta probabilità, questo nuovo “mondo che verrà” sarà multipolare. E ciò rappresenta una prospettiva terribile per i sostenitori della perpetuazione del Vecchio Mondo fondato dall’Occidente e per l’Occidente molti secoli fa. É, quindi, piuttosto naturale che l’Occidente, sotto l’egida della sua guida americana egemone, stia appassionatamente tentando di impedire la realizzazione di questa inesorabile prospettiva.
Nel primo capitolo del mio libro, ho provato ad analizzare le ragioni di questa “paura”, alla base delle quali vi è indubbiamente la persistenza dell’ideologia imperiale che prese il controllo della politica americana dopo la Seconda guerra mondiale: il Neo-conservatorismo.
Come è spiegato in un articolo su Wikipedia, il neoconservatorismo è un movimento politico nato negli Stati Uniti durante gli anni ’60 del ventesimo secolo tra i Democratici di orientamento conservatore disillusi dalla politica estera del partito e dalla cultura della “Nuova Sinistra”. I primi scritti della corrente neoconservatrice apparvero sulla rivista mensile ebraica di New York Commentarypubblicata dall’American Jewish Committee. Ed il primo teorico neo-conservatore ad aver adottato questo termine, considerato perciò il fondatore di questa ideologia, è stato Irving Kristol (che, in gioventù, fu un militante trotskista). Egli è il fondatore del famoso think-tankneoconservatore: Project for the New American Century (PNAC).
Il neoconservatorismo arrivò all’apice della sua influenza durante l’amministrazione repubblicana di Ronald Reagan la cui dottrina politica era guidata dall’anticomunismo e dall’opposizione all’influenza globale dell’URSS. Raggiunse il suo acme all’inizio di questo secolo con la Dottrina Bush della “esportazione della democrazia” anche mediante la forza militare se necessario. I periodici neoconservatori più rilevanti sono Commentarye Weekly Standard. Ci sono anche think-tankneoconservatori in politica estera, come l’AmericanEnterprise Institute(AEI), l’Heritage Foundation, JINSA (Jewish Institute for NationalSecurity Affairs) e, naturalmente, il PNAC.
In politica estera, i Neocons difendono “il potere militare degli Stati Democratici nelle relazioni internazionali al fine di fondare un nuovo ordine internazionale”. In un manifesto del PNAC pubblicato nel 1996 esposero il loro pensiero e principi essenziali in questo modo:
- Più chiarezza ed egemonia benevolente;
- Prevenire la comparsa di un potere nemico;
- Fine della “compiacenza” verso le dittature;
- Rifiuto del declino del potere americano poiché è il primo potere democratico del mondo;
- Ammodernamento dello strumento militare per rispondere alle aggressioni.
I Neoconservatori affermano di volere un nuovo ordine internazionale basato sulla libertà, secondo piani che non sono quelli di Kant e di Wilson, a cui essi rimproverano l’impotenza, ma che traggono dagli scritti di Mosè Maimònide e di Sant’Agostino. Essi criticano le Nazioni Unite e il diritto internazionale in nome della moralità. Nelle conferenze internazionali più importanti essi preferiscono le coalizioni più piccole secondo il principio per il quale “la missione definisce la coalizione”. Appoggiano Israele. La loro dottrina politica è l’interventismo. Perciò, gli Stati Uniti “devono essere riconosciuti come la nazione guida dei diritti umani e devono esportare la democrazia e la libertà in tutto il mondo, se necessario con la forza”.
Tra le idee emblematiche dei Neoconservatori compare principalmente la teoria del “caos creativo”, sviluppata soprattutto da Michael Ledeen, un ex corrispondente da Roma della rivista New Republic. Si tratta di un progetto che mira a “stabilire uno stato di guerra e di permanente instabilità in Medio Oriente tale da consentire agli americani e agli israeliani di mantenere i loro obiettivi geostrategici nella regione, anche ridisegnandone la mappa”. I Neoconservatori non considerano la stabilità del mondo un bene da preservare ma, al contrario, promuovono i vantaggi della destabilizzazione.
Tale era l’idea di Robert Kagan, co-fondatore insieme a William Kristol del PNAC. Kagan era l’autore della lettera del 26 gennaio 1998 inviata a Bill Clinton per chiedergli di condurre un’altra politica in Iraq, con l’intenzione di rovesciare Saddam Hussein per preservare gli interessi americani nel Golfo. La stessa cosa può essere detta su Robert Cooper, un fautore britannico del neoconservatorismo che sostiene una dottrina del “liberalismo imperialistico” che concede il “diritto” ai “paesi civilizzati” di usare la forza contro i loro “nemici stranieri”.
Si deve, tuttavia, al Presidente George W. Bush l’aver avallato e messo in pratica questi principi neoconservatori. Lo fece invadendo nel 2001 l’Afghanistan e nel 2003 l’Iraq attraverso una strumentalizzazione estrema degli sfortunati ma “miracolosi” eventi dell’11 settembre 2001. Nel suo Discorso sullo Stato dell’Unione del 31 dicembre 2005, egli spiegò che non c’era alcun dubbio sul fatto che la soddisfazione del “falso benessere dell’isolazionismo” conduceva a “pericolo e declino”. L’America doveva guidare il mondo: era un imperativo per la sicurezza. “L’alternativa alla leadership americana è un mondo molto più pericoloso e preoccupato”. Dal suo punto di vista, l’America doveva perciò continuare ad “agire coraggiosamente in favore della libertà”. E come nel 1945 “quando l’America liberò i campi di concentramento, dovette accogliere la chiamata della storia per liberare gli oppressi”, la metà del mondo vive in una democrazia, egli disse. “Noi non dimentichiamo l’altra metà, in paesi come la Siria, Birmania, Zimbabwe, Nord Corea e Iran perché le rivendicazioni di giustizia e la Pace del mondo pretendono anche la loro libertà”.
Per fare ciò, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sebbene fino ad allora condannato dai neoconservatori, diviene lo strumento privilegiato per condurre rischiose spedizioni militari con conseguenze caotiche per alcuni Stati “recalcitranti” ed i loro popoli, in particolare nella regione del Medio Oriente e del Nord Africa (MENA). George W. Bush nominò come suo Ambasciatore all’ONU John Bolton, un “falco” neoconservatore che raccontò la sua esperienza alle Nazioni Unite in un libro con un titolo molto significativo.
Quasi un decennio dopo, e malgrado la sconfitta dell’unilateralismo e dell’interventismo militare che egli aveva incessantemente propugnato, Robert Kagan continua ad esercitare una forte influenza sull’establishmentamericano. Nel suo libro pubblicato nel 2012, egli si è sforzato di respingere la tesi del “Declino dell’America”. Questo libro si dice sia diventato il libro preferito del Presidente Barack Obama che nel suo Discorso sullo Stato dell’Unione del gennaio 2012 dichiarò: “L’America è tornata. Chiunque vi dica diversamente, chiunque vi dica che l’America è in declino o che la nostra influenza è finita non sa di cosa sta parlando”.
Questa visione è condivisa da Steve Bannon, la mente della nuova amministrazione del Presidente Donald Trump (prima di esserne escluso). Come è stato spiegato in un eccellente articolo di Pepe Escobar, Steve Bannon “un uomo che si nutre a colazione di saggi storici e di teoria politica (…) un Machiavelli post-verità dietro il più potente dei Principi”, considera la nostra attuale congiuntura geopolitica come “la battaglia finale tra il Bene e il Male (no, il verdetto di Nietzsche per lui non vale), il ‘Bene’ nel nostro caso essendo rappresentato dalla civiltà cristiana con la sua storia di due millenni –con un posto d’onore per l’Illuminismo e la Rivoluzione industriale mentre il suo opposto, il ‘male’, è veicolato da tutta una serie di “minacce esistenziali”– dalle élitepost-moderne, tecnocratiche e secolarizzate (il nemico interno) all’Islam (il nemico in generale)”.
Per una comprensione più approfondita delle radici di questa ideologia neoconservatrice e il suo impatto sulla politica che oggi caratterizza gli Stati Uniti, suggerisco di leggere l’analisi elaborata da Paul Fitzgerald e Elizabeth Gould. Dotati di uno stile di scrittura affilato e di fonti notevolmente documentate, gli autori esaminano la storia della “presa di controllo” degli Stati Uniti da parte dei Neoconservatori, attraverso un processo distinto in quattro stadi presentati in questo modo:
- L’imperialismo americano conduce il mondo alla visione dell’inferno di Dante;
- Come i Neocons spingono per la guerra falsificando le carte;
- Come la CIA creò una falsa realtà occidentale per la “guerra non convenzionale”;
- L’ultima fase della “presa di possesso” dell’America da parte delle élitemachiavelliche.
I Neocons, il mondo arabo e Israele
Cara amica, dopo aver delineato questo lungo ma indispensabile quadro d’insieme storico e geostrategico, vengo all’altra rilevante questione che sta alla base del problema che hai sollevato: Perché il mondo arabo-musulmano è la principale vittima di questa ideologia neoconservatrice americana che costituisce apparentemente il sostrato del Nuovo Ordine Mondiale e il culmine ultimo di un lungo processo storico giunto al termine –secondo un altro teorico neoconservatore: Francis Fukuyama? Sappiamo ora che la Storia non finì; al contrario, stiamo assistendo ad un’accelerazione senza precedenti, e l’Impero americano, lungi dal portare pace e prosperità al mondo, ha condotto il genere umano sulla strada verso il grande disordine nel mondo e il caos distruttivo nel mondo arabo-musulmano, specialmente attraverso le cosiddette “Primavere arabe”.
Aiutato da un formidabile “rullo compressore mediatico” nella sua impresa di dominio globale nell’interesse di un cosiddetto “destino manifesto” messianico, l’impero americano s’impegnò a ridisegnare la mappa geopolitica mondiale in modo da poter fondare, nel lungo termine, una sorta di “Stato mondiale” o “Governo mondiale”. Ciò che presuppone la distruzione delle nazioni mediante il loro dissolvimento in regioni e poli continentali. Questo è probabilmente ciò che Herbert Marshall McLuhan, sociologo canadese e consulente vaticano –noto, in particolare, per aver coniato l’espressione “il mezzo è il messaggio”– aveva in mente quando scrisse nel 1968 “War and Peace in the Global village”, il suo libro rivoluzionario nel quale egli raffigurò un pianeta reso sempre più piccolo dall’uso delle nuove tecnologie, e impiegò il concetto di “glocal”, un misto di globale e locale, anticipando la fondamentale architettura del Nuovo Ordine Mondiale.
Come è stato ben esemplificato in un articolo pubblicato nel 2012, dopo la caduta del comunismo, l’epicentro di questa politica venne fissato in Medio Oriente “dove si trovano non solo le più grandi riserve di idrocarburi ma anche lo Stato di Israele, la vera casa madre del Globalismo, che, sin dalla sua creazione, ha ostacolato tutti i tentativi di pace in questa regione del mondo”. La configurazione geografica di questa parte del pianeta è stata, per lungo tempo, ridisegnata in seno ai think-tankebreo-americani e per opera dei comandi militari i cui obiettivi ultimi sono la frammentazione delle nazioni su basi etniche e religiose (lasciando Israele come unica superpotenza regionale), spingendo l’Islam a compiere il suo “Vaticano II” così da essere integrato un domani nel vasto nascente mercato mondiale. Poiché l’Europa “è (come se fosse) in Dormizione, che ci piaccia o meno, l’Islam è l’unico argine difensivo contro la morsa totale della finanza di Tel Aviv e Washington sul mondo”. Questa volontà di soffocare l’Islam mira anche a “creare un’unica religione” (che dovrebbe riunire tutte le attuali religioni). E questo scopo verrà raggiunto attraverso la separazione dei musulmani, in Sunniti e Sciiti. In vista di questo obiettivo, si possono facilmente comprendere anche i motivi per i quali è stato pianificato il sacro “Stato Islamico”, che include La Mecca e Medina, per meglio controllare l’Islam ed integrarlo nel nuovo ordine mondiale, ciò che adesso non è ancora possibile. Infatti questa (nuova) religione non possiede una gerarchia riconosciuta.
Nel suo eccellente libro, “Black Terror White Soldiers: Islam, Fascism & the New Age”, David Livingstone afferma che gli occidentali, poiché sono fin troppo ignoranti circa la storia del resto del mondo, informati soltanto dei traguardi raggiunti dalla Grecia, da Roma e dall’Europa, ci hanno fatto credere che le loro società rappresentano gli esempi migliori di civiltà. Quest’idea, continua Livingstone, discende dall’influenza occulta di coloro che credono ed insegnano che la storia raggiungerà il suo compimento quando l’uomo diventerà Dio e produrrà le sue proprie leggi. Livingstone conclude dichiarando che questa (influenza/idea) si trova alla base della propaganda che è stata utilizzata per promuovere uno “scontro di civiltà” per mezzo del quale il mondo islamico viene gabellato come ostinatamente attaccato all’idea anacronistica di “teocrazia”. Dove, un tempo, l’espansione della Cristianità e la civilizzazione del mondo venivano utilizzati come pretesti per la colonizzazione, oggi un nuovo “White Man’s Burden” fa uso dei diritti umani e della democrazia per giustificare le aggressioni imperiali. E poiché, dopo secoli di decadenza, il mondo islamico si è dimostrato incapace di mobilitare una difesa, i poteri occidentali, nell’ambito della secolare strategia del “divide et impera”, hanno favorito l’ascesa del fondamentalismo islamico sia per servirsene come agente-provocatore sia per diffamare l’immagine dell’Islam.
Poche settimane dopo l’invasione americana dell’Iraq, Ari Shavit scrisse un pezzo stimolante sul quotidiano israeliano Haaretz,dal significativo titolo “White Man’s Burden”, in cui egli affermò che la guerra contro l’Iraq si basava su una “fede ardente diffusa da un piccolo gruppo composto di 25 o 30 neoconservatori, quasi tutti ebrei, quasi tutti intellettuali (una lista parziale include: Richard Perle, Paul Wolfowitz, Douglas Feith, William Kristol, Elliot Abrams, Charles Krauthammer), persone che sono amici comuni e si coltivano l’uno con l’altro, convinti che le idee politiche costituiscono la principale forza che muove la storia. Essi ritengono che la giusta idea politica implica l’unione della forza e della morale. dei diritti umani e del coraggio. Il sostegno filosofico dei neoconservatori di Washington proviene dagli scritti di Machiavelli, Hobbes e Edmund Burke. Essi apprezzano anche Winston Churchill e la politica perseguita da Ronald Reagan”.
Citando William Kristol, Shavit aggiunge che la guerra contro l’Iraq si basò anche sulla “nuova Weltanschauungamericana secondo la quale qualora gli Stati Uniti non riescano a modellare il mondo a propria immagine, il mondo riuscirà a modellare gli Stati Uniti a sua immagine”. Ad un livello più profondo, secondo Kristol, si tratta di “una guerra più importante finalizzata alla formazione di un nuovo Medio Oriente. Una guerra pianificata per cambiare la cultura politica dell’intera regione. Perché ciò che accadde l’11 settembre 2001, sostiene Kristol, fu che gli americani si guardarono attorno e videro che il mondo non era ciò che essi pensarono che fosse. Il mondo è un posto pericoloso. Perciò gli americani ricercarono una dottrina che consentisse loro di affrontare questo mondo pericoloso. E l’unica dottrina che essi trovarono fu quella neoconservatrice”.
La stessa idea è ovviamente condivisa da Charles Krauthammer per il quale “la guerra in Iraq è stata combattuta per sostituire l’accordo diabolico che l’America fece, decenni or sono, con il mondo arabo. Quell’accordo recitava: voi ci invierete il petrolio e noi non interverremo nei vostri affari interni (…). Quell’accordo di fatto decadde l’11 settembre 2001, afferma Krauthammer. Da quel giorno, gli americani compresero che “se essi avessero lasciato agire il mondo arabo nel suo modo esiziale –repressioni, disastri economici, disperazione– esso avrebbe continuato a fabbricare sempre più Bin Laden. L’America, quindi, arrivò alla conclusione che non aveva altra scelta: doveva assumere su di sé il progetto di ristrutturare il mondo arabo. Di conseguenza, la guerra all’Iraq rappresenta veramente l’inizio di un enorme esperimento storico il cui scopo è quello di operare nel mondo arabo come fu fatto in Germania e in Giappone all’indomani della Seconda guerra mondiale”.
L’articolo si conclude con l’opinione leggermente differente di Thomas Friedman, editorialista del New York Times, che non fa parte del gruppo, anche se egli non si oppose alla guerra ed era convinto che “lo status quoin Medio Oriente non è più accettabile. Lo status quoè finito. E, quindi, è urgente provocare una riforma nel mondo arabo”. Friedman pensava: “è la guerra che i neoconservatori volevano. È la guerra che i neoconservatori hanno commercializzato. Quelle persone avevano intenzione di vendere quando l’11 settembre arrivò, ed essi vendettero. Ragazzi, essi vendettero la guerra. Dunque, non fu una guerra richiesta dalle masse. Questa è una guerra dell’élite. (…) Potrei fornirvi i nomi di 25 persone (delle quali tutte si trovano, in questo momento, nel raggio di cinque isolati da questo ufficio) che, se voi aveste esiliato su un’isola deserta un anno e mezzo fa, la guerra in Iraq non avrebbe avuto luogo”. Tuttavia, egli era dell’idea che “non si trattò di qualche fantasia inventata dai neoconservatori. Non si trattò di 25 persone che presero in ostaggio l’America. Non porti una così grande nazione in una così grande avventura con Bill Kristol e il Weekly Standard ed altri cinque o sei influenti editorialisti. In ultima analisi, ciò che fomentò la guerra fu la reazione eccessiva dell’America all’11 settembre. Il senso autentico della preoccupazione che si diffuse in America dopo l’11 settembre. Non furono soltanto i neoconservatori che ci condussero nei sobborghi di Baghdad. Quello che davvero ci portò nei sobborghi di Baghdad fu proprio una combinazione americana di ansia e di arroganza”.
Echeggiando Ari Shavit, Stephen Green afferma che “dall’11 settembre, un piccolo gruppo di neoconservatori –molti dei quali sono ufficiali superiori presso il Dipartimento della Difesa, il Consiglio di Sicurezza Nazionale e l’Ufficio del Vice Presidente– hanno di fatto distrutto –essi direbbero riformato– la tradizionale politica estera e di sicurezza americana”. Dopo aver esaminato le esperienze pregresse relative alla sicurezza interna di alcuni dei più noti tra di loro, Green conclude che “essi avevano secondi fini, mentre manifestavano di lavorare per la sicurezza interna degli Stati Uniti contro i nemici terroristi”.
Bill Christison e Kathleen Christison pervengono alla medesima conclusione. Essi sostengono che “sin dai giorni, ormai dimenticati, nei quali la politica del Dipartimento di Stato in Medio Oriente era gestita da un gruppo di cosiddetti Arabisti, la politica americana su Israele e il mondo arabo divenne sempre più il campo di applicazione di funzionari noti per le loro tendenze verso Israele. (…) Queste persone, che possono essere correttamente chiamate lealiste di Israele, si trovano ora in tutti i livelli di governo, dai funzionari del Dipartimento della Difesa fino al livello di vice segretari sia al Dipartimento di Stato che alla Difesa, come pure nel personale del Consiglio di Sicurezza Nazionale e nell’ufficio del vice presidente”.
“Un esame del cast dei personaggi presenti nella cerchia dei decisori politici dell’amministrazione Bush –essi proseguono– rivela un’impressionante rete pervasiva di attivisti pro Israele, e una disamina dei voluminosi scritti dei neo-cons mostra che Israele emerge costantemente come punto di riferimento, sempre indicato assieme agli Stati Uniti come il beneficiario di una politica fortemente consigliata e sempre connesso agli Stati Uniti laddove sono in discussione gli interessi nazionali”.
I due autori rivelano un esempio indicativo riguardante la stesura, da parte di Feith, Perle, David e Meyrav Wurmser, di un documento politico, pubblicato nel 1996 da un think-tankisraeliano, scritto per il primo ministro israeliano Netanyhau appena eletto. Attraverso questo documento, essi “sollecitarono Israele a provocare un ‘taglio netto’ (clean break) rispetto al perseguimento del processo di pace, in particolare i suoi aspetti connessi al principio ‘terra in cambio di pace’, che gli autori consideravano la soluzione per lo sterminio di Israele. (…) Gli autori del documento compresero che la minaccia principale per Israele stava arrivando, non dovremmo essere sorpresi di scoprire ora, messi in guardia da Iraq e Siria, che con il rovesciamento di Saddam Hussein si presero due piccioni con una fava e si bloccarono le ambizioni regionali della Siria”.
Secondo i Christison, Elliott Abrams “è un altro sfacciato sostenitore del diritto di Israele, che ora sta portando i suoi contatti con Israele nell’ambito dei servizi americani” dopo la sua “nomina a direttore del programma del Medio Oriente in seno al Consiglio di Sicurezza Nazionale”.
Stranamente, i Christison erano dell’idea che “il duo lealista nell’amministrazione Bush aveva dato un impulso ulteriore allo sviluppo di una tensione messianica del fondamentalismo cristiano che si era alleato con Israele in preparazione della cosiddetta Fine dei Giorni. Questi pazzi fondamentalisti considerano il dominio di Israele sull’intera Palestina alla stregua di una tappa necessaria verso il compimento del Millennio biblico, ritengono che qualsiasi rinuncia di territorio in Palestina sia un sacrilegio e vedono nel conflitto tra ebrei e arabi il preludio, ordinato da Dio, all’Armageddon. (…) che aumenta le possibilità, spaventose ma reali, di una guerra apocalittica tra cristiani e islamici”.
In un commento scritto per un recente numero della rivista Foreign Policy, Elliott Abrams –ella sua qualità di membro del Consiglio per le Relazioni Estere (CFR) per gli studi mediorientali– prevede che “anche nello scenario migliore, con lo Stato Islamico sconfitto che perde il suo controllo su uno ‘stato’, esso può continuare ad esistere come gruppo terroristico– e in ogni caso al Qaeda e gli altri gruppi jihadisti non scompariranno”. Ciò, Elliott conclude, “non metterà fine al nostro coinvolgimento nei conflitti mediorientali che, in realtà, può portare ad un aumento degli stessi. Non ci saranno repliche di guerre irachene, con grande dispiegamento di truppe di terra, ma ci sarà bisogno di una estensione prolungata del tipo di impegno che osserviamo oggi”.
Come è stato chiarito da Alison Weir nel suo libro, “pochi americani sono oggi consapevoli che il sostegno statunitense ha reso possibile la creazione del moderno Israele. Addirittura molti di meno sanno che i politici americani hanno spinto questo tipo di politica contro l’energica opposizione degli esperti diplomatici e militari”. Questo libro, ampiamente documentato, riunisce scrupolosamente “molte fonti di prova per illuminare una realtà che differisce assolutamente dalla narrativa prevalente. Esso fornisce una chiara visione della storia che rappresenta il fattore chiave per comprendere uno dei più importanti problemi politici dei nostri giorni”.
Tutto ciò di cui sopra si attaglia perfettamente alla tesi del “Nuovo Sykes-Picot” che ho sviluppato nel mio libro.
In conclusione, io penso di poter affermare che se gli uomini sono il motore principale degli accadimenti che fanno la storia mondiale, essi non sono certamente i protagonisti del loro destino. E questo –come scrisse il grande pensatore algerino Malek Bennabi nel suo libro più importante “L’Afro-asiatisme”– si compie “malgrado la volontà degli uomini, poiché la ragione umana si rivela inutile se non coincide con l’evoluzione dei fatti che impongono la volontà di Dio sulla Storia. Sarebbe sacrilego se essa volesse deviare il corso della storia come se volesse opporsi alla volontà di Dio e ai suoi fini”.
Note bibliografiche:
- Tradotto da CLAUDIO CIANI (nel suo libro Un Nuovo Medio Oriente? Dall’Accordo Segreto Sykes-Picot Al Progetto Per Un “Nuevo Secolo Americano”: https://web.uniroma1.it/disp/sites/default/files/nuove-accessioni/nuovo%20medio%20oriente.pdf), su concessione dell’autore, dall’originale inglese pubblicato il 31 luglio 2017 sul blog “The Saker”: http://thesaker.is/the-neoconservatives-and-the-coming-world-a-response-to-the-questions-of-a-virtual-friend/.
- Ricercatore algerino in relazioni internazionali, autore del libro L’Orient et l’Occident à l’heure d’un nouveau Sykes-Picot (Editions Alem El Afkar, Algeri, 2014), fervente sostenitore del futuro vitale “dialogo di civiltà”, la scelta alternativa rispetto a ciò che, nel mondo attuale sempre più globalizzato e polarizzato, è lo “scontro di civiltà”. Consultabile in francese qui: http://www.mezghana.net/amir-nour.pdf e in lingua araba qui: http://www.mezghana.net/Sykes-Picot.jadeed-REAL.LAST.pdf.
- SAMUEL P. HUNTINGTON, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997, p. 462.
- Un futur qui vaut la peine d’être créé: interview du docteur Thomas Barnett, 8 agosto 2004,
http://www.checkpoint-online.ch/CheckPoint/Forum/For0078-InterviewBarnett.html.
- THOMAS BARNETT, The Pentagon’s New map: War and Peace in the twenty-first century, Putnam, New York, 2004.
- Malek Bennabi (1905-1973), scrittore e filosofo algerino.
- L’Orient et l’Occident à l’heure d’un nouveau Sykes-Picot, Op. Cit.
- https://en.wikipedia.org/wiki/Neoconservatism.
- Si v. la presentazione fatta dall’Osservatorio europeo dei think-tank:
http://www.oftt.eu/think-tanks/monographs/article/pnac-project-for-the-new-american-century.
- William Kristol e Robert Kagan, Toward a Neo-Reaganite Foreign Policy, in Foreign Affairs, luglio/agosto 1996.
- ROBERT COOPER, The Breaking of Nations: Order and chaos in the twenty-first century, Atlantic Monthly Press, New York, 2003; trad. it., La fine delle Nazioni. Ordine e caos nel XXI secolo, Lindau, Torino, 2004.
- Si v. CORINE LESNES, L’Amérique doit ‘conduire’ le monde, selon Bush, in Le Monde, 1 febbraio 2006.
- Questo episodio è stato analizzato da Hardeep Singh Puri, Rappresentante Permanente dell’India a Ginevra e New York (tra il 2002 e il 2013) nel suo libro Perilous Interventions: the Security Council and the Politics of chaos, HarperCollins, New York, 2016.
- JOHN BOLTON, Surrender is not an option: Defending America at the United Nations and abroad, Threshold Editions, New York, 2008.
- ROBERT KAGAN, The World America Made, Alfred A. Knopf, New York, 2012.
- PEPE ESCOBAR, “Will Andrew Jackson Trump Embody the Bannon Doctrine?”, in Sputnik News, 9 febbraio 2017, https://sptnkne.ws/d5jV.
- Un’analisi in quattro parti intitolata The history of the Neocon takeover of America, pubblicata il 10 maggio 2017 sul blog “The Saker”: https://thesaker.is/the-history-of-the-neocon-takeover-of-the-usa-a-4-part-analysis/.
- MARSHALL MCLUHAN, QUENTIN FIORE, War and Peace in the Global village, Bantam Books, New York, 1968; trad. it., Guerra e pace nel villaggio globale, Apogeo, Milano, 1995.
- Les coups tordus de l’Empire, in Réfléchir et agir, n. 40, inverno 2012.
- Secondo un riadattamento dei confini dell’area geografica islamica ipotizzato da Ralph Peters, membro del PNAC, in un articolo intitolato How a better Middle East would lookapparso su Armed Forces Journalnel giugno del 2006: http://armedforcesjournal.com/blood-borders.
- Si v. L’Iran un pays en sursis, in Nexus, n. 66, gennaio-febbraio 2010.
- DAVID LIVINGSTONE, Black Terror White Soldiers: Islam, Fascism & the New Age, Sabilillah Publications, 2013.
- L’espressione deriva da una celebre poesia di Rudyard Kipling del 1899: The White Man’s Burden: The United States and the Philippine Islands.
- ARI SHAVIT, White Man’s Burden, in Haaretz, 3 aprile 2003,
http://www.haaretz.com/israel-news/white-man-s-burden-1.14110.
- STEPHEN GREEN, Neo-Cons, Israel and the Bush Administration, in Counterpunch, 28 febbraio 2004
https://www.counterpunch.org/2004/02/28/neo-cons-israel-and-the-bush-administration/.
- Bill Christison è stato un ufficiale superiore della CIA. Prestò servizio come funzionario di intelligencee come Direttore dell’Ufficio di analisi politica e regionale della CIA.
- BILL CHRISTISON, KATHLEEN CHRISTISON, The Bush Neocons and Israel, in Counterpunch, 6 settembre 2004, https://www.counterpunch.org/2004/09/06/the-bush-neocons-and-israel/.
- A Clean Break: A New Strategy for Securing the Realm, si v. p. 29.
- ELLIOTT ABRAMS, The United States Can’t Retreat From the Middle East, in Foreign Policy, 10 luglio 2017.
- ALISON WEIR, Against Our Better Judgment: The hidden history of how the United States was used to create Israel, CreateSpace Independent Publishing Platform, 2014.
- L’Orient et l’Occident à l’heure d’un nouveau Sykes-Picot, Op. Cit
- MALEK BENNABI, L’Afro-Asiatisme, conclusions sur la Conférence de Bandoeng, Il Cairo, Imprimerie Misr S.A.E, 1956.