La caduta dell’aquila è vicina

Avremmo raggiunto questo momento cruciale in cui l’iperpotenza declinante comincia a dubitare di se stessa? La stampa nordamericana ha appena raccontato quello che l’ex-presidente Jimmy Carter ha detto a Donald Trump durante l’ultimo incontro. L’inquilino della Casa Bianca aveva invitato il predecessore a parlargli della Cina, e Jimmy Carter (il 15 aprile scorso-ndr.) ha pubblicamente riferito del discorso durante una riunione battista in Georgia. Una vera pepita.

“Temi che la Cina va avanti e sono d’accordo con te. Ma sai perché la Cina ci supera? Normalizzai le relazioni diplomatiche con Pechino nel 1979. Da quella data, sai quante volte la Cina è stata in guerra con qualcuno? Neanche una. Noi siamo costantemente in guerra. Gli Stati Uniti sono la nazione più guerriera nella storia del mondo perché vogliono imporre i loro valori ad altri Paesi. La Cina, da parte sua, investe in progetti come le ferrovie ad alta velocità invece di spendere per le spese militari. Quanti chilometri di ferrovia ad alta velocità abbiamo in questo Paese? (1) Abbiamo sprecato 3 trilioni di dollari in spese militari. La Cina non ha sprecato un centesimo per la guerra, ed è per questo che ci supera in quasi tutto. E se avessimo preso 3 trilioni per le infrastrutture statunitensi, avremmo una ferrovia ad alta velocità. Avremmo ponti che non collassano. Avremmo strade che vengono mantenute correttamente. Il nostro sistema d’istruzione sarebbe buono come quello della Corea del Sud o di Hong Kong”. (Jimmy Carter, ex presidente USA 1977-1981)

Che tale senso comune non abbia mai toccato la mente di un capo nordamericano, lo dice la natura del potere in questo Paese. È senza dubbio difficile, per uno Stato che rappresenta il 45% della spesa militare mondiale ed ha 725 basi militari all’estero, dove i produttori di armi controllano lo Stato profondo e decidono una politica estera responsabile di 20 milioni di morti dal 1945, per mettere in discussione il proprio rapporto patologico con la violenza armata.

” La guerra in Vietnam”, disse Martin Luther King, “è sintomo di una malattia dello spirito nordamericano i cui pilastri sono razzismo, materialismo e militarismo”. Ma questa domanda riguarda principalmente il futuro. Per colpa dei loro capi, gli Stati Uniti sono condannati a conoscere il destino degli imperi che affondarono per le loro eccessive ambizioni, letteralmente asfissiati dal peso esorbitante della spesa militare? Alla fine del suo mandato, nel 1959, il presidente Eisenhower denunciò con accenti profetici il complesso militare-industriale che gravava pesantemente sulla società nordamericana. Non più a Donald Trump o Barack Obama, non gli importa del destino delle persone affamate, invase o bombardate dallo zio Sam in nome della democrazia e dei diritti umani. Ma come oggi Jimmy Carter probabilmente percepisce, la corsa agli armamenti sarà la causa principale del declino dell’impero.

Perché i neoconservatori e altri “Dottor Stranamore” del Pentagono per diversi decenni non hanno solo hanno usurato la democrazia liberale e massacrato Vietnam, Laos, Cambogia, Afghanistan, Iraq, Libia e Siria, per non parlare degli omicidi orchestrati nell’ombra dalla CIA e suoi rami, dallo sterminio della sinistra indonesiana (500.000 morti) alle tragedie degli squadroni della morte guatemaltechi (200.000 morti) attraverso bagni di sangue eseguiti a nome dell’impero dalla jihad planetaria lobotomizzata. Gli strateghi del contenimento del comunismo a colpi di napalm, e poi gli apprendisti stregoni del caos costruttivo che importano terrore, infatti, non solo hanno infiammato il pianeta. I burattini dello Stato profondo nordamericano, guerrafondai stabilitisi al Congresso, Casa Bianca e think tank neo-con che facevano precipitare la società statunitense nella depressione interiore che maschera a malapena l’uso frenetico della zecca. Perché se il belluismo degli Stati Uniti è l’espressione del loro declino, ne è anche la causa. Ne è l’espressione, quando di cerca di fermare questo declino, brutalità dell’interventismo militare, sabotaggio economico ed operazioni sotto falsa bandiera sono il segno distintivo della politica estera statunitense. Ne è la causa, quando la folle inflazione delle spese militari sacrifica lo sviluppo di un Paese dove i ricchi sono più ricchi e i poveri sempre di più.

Mentre la Cina investe in infrastrutture civili, gli Stati Uniti le abbandonano a vantaggio delle industrie delle armi. Washington sbraita, ma lascia che il Paese si disintegri all’interno. Il PIL pro capite è enorme, ma il 20% della popolazione vive in povertà. Le prigioni sono piene: i detenuti statunitensi sono il 25% dei prigionieri nel pianeta. Il 40% della popolazione è colpita dall’obesità. L’aspettativa di vita degli americani (79,6 anni) è superata da quella dei cubani (80 anni). Come può un piccolo Paese socialista, soggetto a embargo, fare meglio di una gigantesca potenza capitalista coronato dall’egemonia planetaria? Si deve credere che negli Stati Uniti la salute della plebe non sia la principale preoccupazione delle élite.

Abile concorrente, Donald Trump vinse le elezioni del 2016 promettendo di ripristinare la grandezza degli Stati Uniti e impegnandosi a ripristinare i posti di lavoro persi a causa della globalizzazione sfrenata. Ma i risultati ottenuti, in assenza di riforme strutturali, infliggono una doccia fredda all’ardore incantatore. Il deficit commerciale col resto del mondo è esploso nel 2018, battendo un record storico (891 miliardi di dollari) che frantuma quello del 2017 (795 miliardi). Donald Trump ha completamente fallito nel cambiare la situazione, e i primi due anni della sua amministrazione sono i peggiori nella storia economica degli Stati Uniti. In tale deficit globale, lo squilibrio degli scambi con la Cina grava pesantemente, raggiungendo nel 2018 un record storico (419 miliardi) che supera il record disastroso del 2017 (375 miliardi). La guerra commerciale di Donald Trump ha particolarmente aggravato il deficit commerciale degli Stati Uniti. Mentre le importazioni di merci cinesi verso gli Stati Uniti hanno continuato a crescere (+ 7%), la Cina ha ridotto le importazioni dagli Stati Uniti. Donald Trump voleva usare i dazi per riequilibrare il bilancio degli Stati Uniti. Non era illegittimo, ma irrealistico per un Paese che lega il suo destino a quello della globalizzazione dettato dalle multinazionali degli Stati Uniti. Se aggiungiamo che il deficit commerciale con Europa, Messico, Canada e Russia è anche peggiorato, si misurano le difficoltà che affliggono l’iperpotenza in declino. Ma non è tutto. Oltre al deficit commerciale, il deficit fiscale federale si è ampliato (779 miliardi, contro 666 miliardi nel 2017). È vero che la spesa militare è impressionante. Il bilancio del Pentagono per il 2019 è il più alto nella storia degli Stati Uniti: 686 miliardi di dollari. Lo stesso anno, la Cina spende 175 miliardi, con una popolazione quattro volte superiore. Non sorprende che il debito federale abbia battuto il nuovo record di 22175 miliardi. Il debito privato, quello delle aziende e dei privati, dà le vertigini (73.000 miliardi).

Certo, gli Stati Uniti beneficiano di una situazione eccezionale. Il dollaro è ancora la valuta di riferimento nel commercio internazionale e nelle riserve delle banche centrali. Ma questo privilegio non è eterno. Cina e Russia sostituiscono le riserve in dollari con lingotti d’oro e una quota crescente degli scambi è ora denominata in yuan. Gli Stati Uniti vivono a credito a spese del resto del mondo, ma per quanto? Secondo l’ultimo studio della società di revisione PwC (“Il mondo nel 2050: come cambierà l’economia globale nei prossimi 30 anni”), i “Paesi emergenti” (Cina, India, Brasile, Indonesia, Messico, Russia, Turchia) potrebbe rappresentare il 50% del PIL globale nel 2050, mentre la quota dei Paesi G7 (Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Giappone) scenderebbe al 20%. La caduta dell’aquila è vicina.

Bruno Guigue

Articolo originale in francese :

La chute de l’aigle est proche, 23 aprile 2019

Traduzione italiana : amicuba.altervista.org

 

 

(1) L’unico servizio AV (secondo la definizione statunitense) oggi esistente è gestito da Amtrak, con l’Acela Express tra Boston e Washington, D.C. per un totale di 724 km. (https://it.wikipedia.org/wiki/Alta_velocit%C3%A0_ferroviaria#Stati_Uniti_d’America)

 


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Articles by: Bruno Guigue

About the author:

Ancien élève de l’Ecole normale supérieure et de l’Ecole nationale d’administration, Bruno Guigue est un ex-haut fonctionnaire français. Chercheur en philosophie politique et analyste politique, il est l’auteur de plusieurs ouvrages, dont « Aux origines du conflit israélo-arabe, L’invisible remords de l’Occident », « Faut-il brûler Lénine ? » et « Les Raisons de l’esclavage », publiés chez L’Harmattan. Chroniqueur de politique internationale, il a publié des centaines d’articles diffusés en huit langues par plusieurs dizaines de sites d’information indépendants.

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